domenica, dicembre 21, 2008

Anche le parole hanno un'identità...e possono forse perderla?

Oggi, in una società così multiculturale, dove i confini tra le nazioni sono diventati così sottili, dove le distanze si vanno via via ridimensionando, dove andare a vivere all'estero non è più nulla di così eccezionale, si sente spesso parlare di identità. L'identità di quelli che, per esempio, hanno più di una patria, più di una paese, più di una lingua...e che forse, proprio per questo, non si riconoscono come appartenenti a nessuna nazione. 
Allo stesso tempo in cui il mondo si globalizza e i confini tra lingue, culture e paesi si assottigliano, abbiamo dall'altra parte quel fenomeno di glocalizzazione che ci rende così patrioti e gelosi del nostro patrimonio nazionale, culturale e linguistico. 
Prendendo come esempio la lingua, anzi, il suo lessico, le parole che la costituiscono, si possono facilmente individuare processi sia di glocalizzazione che di globalizzazione.
Un esempio di glocalizzazione sta nelle continue proteste e dibattiti sul tema dell'entrata massiva di inglesismi nell'italiano di oggi. Una delle manifestazioni di questo dibattito è l'iniziativa della Dante Alighieri, che, in un suo sondaggio di settembre, ha chiesto agli italiani e agli amanti della lingua italiana quali fossero gli inglesismi più inopportuni nell'uso dell'italiano. Come riporta Alessandro Masi nel suo articolo apparso su ItaliaOggi il 12 Settembre, sembra che tra i più sgraditi ci siano parole diffusissime nel liguaggio colloquiale, come "week end" e "ok", e parole più ristrette a certi settori come "welfare", "briefing", "devolution". Logicamente il sondaggio stesso è stato in un certo senso concepito proprio a partire da un punto di vista critico verso questi "intrusi" che contaminano la purezza della lingua italiana. È su questo punto che gli italiani si uniscono in difesa del proprio patrimonio, della propia lingua, della propria identità linguistica che li rende unici. Con questo non voglio criticare la censura agli inglesismi e tantomeno dire che il problema degli inglesismi non esiste e che non debba parlarsene. Anzi, credo che questi dibattiti si stiano dimostrando un'ottima medicina: le persone prendono coscienza del problema e decidono da quale parte schierarsi - e, da quel che ho visto, qui sembra prendere piede il processo della glocalizzazione.
Un esempio di globalizzazione invece sta, ironicamente, nella diffusione degli italianismi all'estero. In occasione della realizzazione del Dizionario degli italianismi nel mondo, a cura dei linguisti Luca Serianni, Lucilla Pizzoli e Leonardo Rossi, La Dante ha indetto un altro sondaggio: Dieci parole italiane per le lingue d'Europa. Attraverso il sondaggio, che chiedeva agli internauti di votare, in una lista di 100 italianismi, i 10 che fossero considerati i più importanti storicamente e culturalmente, si è scoperto che al primo posto come italianismo diffuso in Europa sta la parola "pizza", seguita da altre come "spaghetti", "capuccino", "espresso" "mozzarella" etc. Il sondaggio, tradotto in 23 lingue europee, ha riscosso un grande successo, con più di un milione di voti solo nei primi quattro giorni.
Adesso, il fatto che una parola italiana varchi i confini territoriali e linguistici dell'Italia per entrare in altre lingue, ci dimostra la capacità che l'Italia ha (o, considerando i tempi che corrono, ha avuto) di esportare la propria immagine, la propria cultura e la propria identità all'estero. E questo, a mio avviso, costituisce uno dei pilastri della globalizzazione.
Alla questione degli Italianismi è stato dedicato uno spazio nella trasmissione radiofonica Fahrenheit, in cui, oltre a parlarsi del sondaggio e del nuovo dizionario che arriverà sugli scaffali entro il 2010, si è discusso dell'immagine dell'Italia all'estero e dell'identità dei vecchi e nuovi emigrati Italiani. Ospite del programma era il famoso Beppe Severgnini (di cui sono una fan fin dai tempi in cui scriveva su Qui Touring), italiano di mondo che tiene la rubrica "Italians" sul Corriere della Sera. Severgnini, che ha appena pubblicato il libro Italians: il giro del mondo in 80 pizze, sembra soddisfatto dell'immagine seria e positiva che l'emigrato italiano di oggi sta diffondendo in tutto il mondo.
Certo, l'ironia dell'intera situazione è lampante. Da una parte si dice no agli inglesismi "invasori", dall'altra si è orgogliosi di esportare italianismi, e infine, per parlare di questo orgoglio dell'identità italiana, si invita l'autore di una  rubrica intitolata Italians (sbaglio, o è un anglicismo?). La cosa senz'altro può lasciarci perplessi. E con questo non intendo dire che l'influenza degli italianismi nel mondo sia della stessa portata di quella degli inglesismi. È chiaro che si tratta di due fenomeni diversi. Tuttavia non si può non notare una certa "incoerenza", che magari potrebbe trovare una spiegazione nella questione identitaria.
Sì, e qui non voglio parlare solo dei valori che costituiscono l'identità degli individui, ma dell'identità delle parole. Già, perché un "prestito linguistico" si trova nella stessa situazione di un Italiano all'estero da molti anni, di un figlio di una famiglia multilingue e multiculturale. Cioè, pur appartenendo a entrambe le lingue, in realtà non fa parte di nessuna. Nello spostarsi da una lingua all'altra, il prestito cambia fuori, dal punto di vista del significante (suono, grafia), e cambia anche dentro, dal punto di vista del significato che porta. Le parole possono forse subire questo processo di transito tra lingue così come lo vive una persona? Se così fosse, mi sembrerebbe naturale che un italiano all'estero si definisca attraverso un prestito linguistico (Italians), visto che per questo individuo dovrà senz'altro essere difficile definirsi secondo una lingua con cui non riesce (più) a identificarsi al 100%. E, se le parole possono sentirsi spaesate e possono attraversare crisi identitarie, mi viene da chiedermi quale carica culturale e identitaria possieda un inglesismo che invade l'italiano? E un italianismo che invade l'inglese, il francese, il tedesco, il portoghese? Purtroppo, ponendomi queste domande, non posso fare a meno di immaginare un Americano che si trasferisce in Toscana e un Italiano che va in California. L'Americano che si trasferisce in Toscana ama l'Italia e si fa contagiare dalla sua bellezza....si trasferisce nn per portare la sua cultura in Toscana ma per entrare nella (e far parte della) cultura italiana. L'italiano che si trasferisce in California, invece, sicuramente continua ad andare in cerca della pasta Barilla, del caffé Lavazza, della Mozzarella di Bufala, dell'Olio extravergine toscano, del vino, della pizza buona e criticherà Starbucks, Pizza Hut e i fast food... Ma allora chi sta invadendo la cultura di chi? Chi rappresenta un vero pericolo? mmmm...ci sarebbe da pensarci...

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